GENS IRPINA

Oscar d'Agostino

Il chimico dei fantasmi

Laureatosi in chimica nel 1926 a Roma, Oscar d’Agostino (Avellino 1901 – Roma 1975) nel 1928 fu assunto come consulente tecnico dalla Fabbrica di pile elettriche della Società radiotelefonica italiana A.Volta. Iniziò quindi una serie di collaborazioni in chimica applicata con Parravano, direttore dell’Istituto chimico dell’Università di Roma. Nel 1933 ottenne una borsa di studio per perfezionarsi in radiochimica all’Institut du Radium di Parigi. Dal 1934 al 1936 collaborò con il gruppo Fermi. Nel 1936 passò come ricercatore presso l’Istituto nazionale di chimica del CNR diretto da Parravano e dal 1945 presso l’Istituto Superiore di Sanità, prima al Laboratorio di fisica, dove fondò il reparto di radiochimica, e dal 1959 al Laboratorio di chimica.
Nel 1958 il settimanale Candido pubblicò questi “preziosissimi” ricordi a firma di Oscar d’Agostino.


FERMI MI MANDÒ DA MADAME CURIE PER UN CERTO LAVORETTO
Fu alle ore 8,15 del 6 agosto 1945 che la prima bomba atomica venne lanciata su Hiroshima. Da quella tremenda esplosione sono passati ormai tredici anni, ma a Roma un fatto del genere era stato previsto molto prima, esattamente il 25 ottobre 1934 quando sei fisici e un chimico presentarono domanda presso il Ministero delle Corporazioni per ottenere “un attestato di privativa industriale di un nuovissimo metodo atto a produrre radioattività artificiale mediante il bombardamento con neutroni”. Il documento reca in calce sette firme. La prima è quella di Enrico Fermi, quale capo dell’équipe. Seguendo poi in ordine alfabetico quella di Edoardo Amaldi, Oscar d’Agostino, Bruno Pontecorvo, Franco Rasetti, Emilio Segré, Giulio Cesare Trabacchi. Quel documento che l’ingegnere Letterio Laboccetta, titolare di uno studio tecnico per la proprietà intellettuale, presentò a nome dei sette studiosi venne preso in consegna da un funzionario che lo registrò con il numero 324458 e lo passò all’Ufficio Centrale dei Brevetti di Roma assieme con una domanda intesa ad ottenere la protezione commerciale di una nuova spilla da balia e a una richiesta di brevetto per un apparecchio segnalatore di fughe di gas. A nessuno venne in mente che era stato steso l’atto di nascita della bomba atomica.


SONO UNO DEI SETTE
Fu solo dopo le esplosioni di Hiroshima e Nagasaki che saltò fuori di nuovo il nome di Enrico Fermi. Più tardi si cominciò a parlare di Los Alamos, di Handford, di Oak Ridge. Il resto è noto: esperimenti nucleari, bomba H, episodio Oppenheimer, agenti sovietici in Canadà e negli Stati Uniti, condanna a morte dei Rosenberg, arresto di Karl Fuchs, fuga in Russia di Bruno Pontecorvo, pioggia radioattiva... Il romanzo degli atomi e dei neutroni, delle reazioni a catena era scritto. Ma la verità era stata narrata? Nulla era stato falsato? Sono uno dei sette firmatari di quell’ormai celebre brevetto numero 324458; io sono, insomma, con mio immenso rammarico, ma senza alcuna colpa, uno degli involontari responsabili dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, giacché fu la nostra scoperta quella che aprì una nuova era destinata sempre più a mutare le sorti di questa nostra travagliata e instabile Umanità. Ma chi avrebbe previsto tanta rovina, tanti lutti, tanti pianti? Noi allora lavoravamo per scopi pacifici, anche se fu subito chiarissimo a tutti noi che la nostra scoperta, se utilizzata per scopi bellici, era destinata a produrre esplosivi di potenza inaudita. Avemmo subito la sensazione di quale arma terribile sarebbe stata nelle mani di una Potenza ricca di cervelli e di mezzi l’utilizzazione della energia nucleare alla quale il brevetto numero 324458 apriva di colpo vie grandiose.


CORBINO INFORMA IL RE
Questo lasciò chiaramente capire il senatore Orso Mario Corbino, nostro indimenticabile maestro, annunciando nel 1934 la scoperta di Fermi alla Accademia dei Lincei, presente Vittorio Emanuele III. Ma subito dopo, quasi impaurito con se stesso, osservò rivolgendosi direttamente al Re: «Ci sia lecito esprimere l’augurio che l’opera della Scienza sia ormai destinata ad aumentare il benessere della Umanità e non alla sua distruzione». Corbino, purtroppo, fu cattivo profeta. Egli però non poté conoscere i risultati della guerra atomica perché morì prima ancora che Fermi, Rasetti e Segré si trasferissero negli Stati Uniti, prima ancora che Pontecorvo emigrasse in Francia e in Canadà sotto la spinta delle leggi razziali. In Italia rimanemmo solo in tre, Amaldi, Trabacchi ed io. Nessuno di noi si è mai preoccupato di raccontare le vicende singolari (alcune veramente strane) di quel famoso brevetto anche perché altri l’hanno fatto. Né io avrei mai accettato di narrare per Candido quelle lontane giornate se a farlo non mi avessero spinto nuovi motivi. Quali essi siano il lettore li scoprirà facilmente, tornando con la memoria indietro, insieme con me, in un’epoca che appare già stranamente avvolta in una nebbia fonda.


LA MIA VITA
Sono nato ad Avellino il 20 agosto 1901. Ho dunque 57 anni, la stessa età che avrebbe Fermi se fosse ancora tra noi. Mia madre, come la madre di Fermi, era una maestra elementare, mio padre, come il padre di Fermi, era un impiegato. Venni a Roma bambino e in questa città condussi tutti gli studi. Mi laureai in chimica il 16 novembre 1926, ma la mia gioia fu di breve durata. Quindici giorni dopo moriva mio padre. Mi trovai così subito a dover affrontare la vita senza alcun appoggio materiale, tranne quello materno. Terminato il servizio militare trovai lavoro in una fabbrica di pile a secco. A quell’epoca le pile a secco erano di notevole interesse tecnico e commerciale, a causa dello sviluppo crescente delle trasmissioni radio. Infatti gli apparecchi di allora funzionavano quasi esclusivamente mediante pile. Tutto, dunque, sembrava andare per il meglio, quando un brutto giorno mi venne comunicato che la fabbrica sarebbe stata chiusa. Sperai fino all’ultimo che in qualche modo fosse possibile evitare il fallimento, ma il tanto atteso “miracolo” non avvenne. Così mi trovai di nuovo senza lavoro. Per un caso veramente fortuito avevo, proprio allora, conosciuto il professore Giulio Cesare Trabacchi, direttore (così si chiamava in quel tempo) del Laboratorio di Fisica della Direzione Generale di Sanità Pubblica, che oggi fa parte dell’Istituto Superiore di Sanità. Anche Trabacchi si interessava di pile a secco e con lui se ne interessava il professore Parravano, direttore dell’Istituto di Chimica dell’Università di Roma. Trabacchi mi presentò a Parravano. Un giorno Parravano mi disse: «Senta, caro d’Agostino. So che lei cerca lavoro. Io non le posso offrire molto. Ma in attesa che anche per lei salti fuori un buon posto, vuole farmi l’assistente volontario?». Accettai con entusiasmo. Sapevo che l’incarico era assolutamente privo di qualsiasi remunerazione, ma mi apriva, forse, le porte alla carriera universitaria. Ero, dunque, lontano un miglio dall’immaginare la strada che di lì a poco mi si sarebbe spalancata.


UN BIGLIETTO CHE CONSERVO ANCORA
A mutare la mia vita fu un bigliettino che conservo nel mio portafoglio come un amuleto. È ormai ingiallito dal tempo e non contiene che poche parole: «Si presenti al professore Rasetti, all’Istituto di Fisica. Credo che il professor Fermi le voglia parlare». Queste le parole che mi scrisse Parravano nell’aprile del ‘33. Non conoscevo personalmente né Rasetti né Fermi. Sapevo, perché la cosa era nota in tutto l’ambiente universitario, che il primo era soprannominato “Il Cardinale Vicario” e Fermi “Il Papa”. Avevano entrambi la mia stessa età (anche Rasetti è del ‘901) ma già erano professori universitari. Fermi, accademico d’Italia a 28 anni, era chiamato il “Papa” perché ritenuto dai suoi allievi infallibile com’è il Pontefice per noi Cattolici. Rasetti, suo portavoce, era il “Cardinale Vicario”. Come fisico poi Rasetti si era guadagnata la fama di sperimentatore diabolico per certe trovate rimaste storiche negli annali dell’Istituto di Fisica. Inoltre aveva vari “hobbies” singolari; conosceva, per esempio, a menadito le particolarità tecniche di tutti i locomotori elettrici italiani, collezionava farfalle, imparava i nomi dei fossili e delle piante; ne conosceva a memoria quindicimila ed era pronto, per scommessa, a snocciolarli tutti uno dopo l’altro.


VADO DAL “PAPA”
Rasetti mi accolse con estrema affabilità. Mi spiegò subito che era stato il senatore Orso Mario Corbino a chiedere, d’accordo con Fermi, un chimico al professor Parravano. «Stiamo facendo degli esperimenti molto importanti», mi disse Rasetti, «e abbiamo bisogno di un chimico che sia pratico nella manipolazione di sostanze radioattive». «Io però non ho nessuna esperienza in materia», confessai subito. «Questo il Papa lo sa benissimo», rispose Rasetti pronunciando il soprannome di Fermi con estrema disinvoltura. Così andammo dal “Papa”. L’incontro fu cordiale. Fermi, piccolino, magro, leggero, mi strinse con calore la mano e mi ricordò subito che la moglie sua, la signora Laura, era stata mia alunna nel corso di chimica analitica tenuto all’università dal professore Berlingozzi di cui ero stato collaboratore. Parlò piano, con voce modulata, insinuante, con una leggera cadenza romana. «Lei sarà il nostro chimico dei fantasmi», mi disse sorridendo Fermi. Così, infatti, erano stati chiamati ai primordi della radioattività, con evidente sarcasmo, quei chimici che si occupavano di sostanze radioattive naturali. Poi, forse leggendo nei miei occhi un dubbio, il “Papa” aggiunse: «Lei andrà a Parigi nel laboratorio di Madame Curie. Con Parravano e Corbino abbiamo sistemato ogni cosa. Io ho già scritto a Madame Curie perché lo accolga nel suo Istitute du Radium e le permetta di impratichirsi nella manipolazione di sostanze radioattive. Dal canto suo», continuò Fermi, «il senatore Corbino ha ottenuto per lei una borsa di studio che le è stata concessa dal Consiglio Nazionale delle Ricerche. Prima però che lei parta desidero che venga un po’ qui nel mio istituto per un certo lavoretto».


AL LAVORO CON SEGRÉ E TRABACCHI
Tornai a casa tutto euforico. Avrei lavorato con Fermi! Sarei andato a Parigi! Il giorno dopo, alle nove in punto, ero in via Panisperna pronto a iniziare il mio nuovo lavoro. Fu allora che conobbi il “Basilisco”, cioè Emilio Segré, il fisico numero tre dell’équipe. Segré si era guadagnato quel curioso soprannome a causa del suo carattere: un nonnulla lo faceva impermalire come un bambino. Segré però nascondeva un cuore d’oro. Me ne accorsi ben presto. Il “lavoretto” che ci aspettava era una estrazione di polonio da un notevole quantitativo di radio posseduto dal professor Trabacchi nel laboratorio di fisica della Direzione Generale di Sanità Pubblica. Trabacchi conservava quel “tesoro” in una singolare cassaforte. Qui erano contenuti 1600 milligrammi di un sale di radio. Di essi circa 1300 milligrammi servivano a Trabacchi per l’estrazione settimanale delle “emanazioni” che venivano distribuite agli ospedali di Roma. Altri 300 milligrammi, per particolari vicende erano rimasti inutilizzati da molti anni. Per questo motivo erano un materiale particolarmente prezioso per l’estrazione del polonio. Trabacchi nicchiava a concedere ai fisici i 1600 milligrammi di radio, il cui valore commerciale superava allora il milione. Ed era la prima volta che egli rispondeva con titubanza a una richiesta di Fermi. Infatti egli era stato soprannominato la “Divina Provvidenza” proprio per i continui piaceri che era solito concedere ai fisici del “Papa”. Quel giorno, dunque, Trabacchi domandò a Segré: «Chi manipolerà il radio?» «Rasetti», rispose Segré «perché proprio il “Cardinale” avrebbe dovuto assieme con me preparare l’estrazione del polonio». Trabacchi allora osservò: «Come posso fidarmi di Rasetti se ha un laboratorio che sembra un magazzino messo a soqquadro, strapieno com’è di strumenti, di farfalle, di foglie secche e di chissà mai quali altre diavolerie?». Segré allora aggiunse: «Con Rasetti lavorerà anche d’Agostino...». Il mio nome rassicurò Trabacchi. Era stato proprio lui, la “Divina Provvidenza” a presentarmi a Parravano, come ho già detto. Trabacchi, senza più alcuna titubanza, concesse il prezioso quantitativo di radio.


CON UN VECCHIO TRATTATO DI CHIMICA
Da allora Segré, il “Basilisco”, cominciò a stimarmi, anche se c’era qualcosa in me che egli non riusciva a capire; questo “qualcosa” era un vecchio trattato di chimica analitica che il Rose aveva pubblicato nel 1870 e che io avevo portato con me nell’Istituto di Fisica. Segré (e con lui, forse, anche Rasetti e Amaldi) non riuscivano a comprendere come facesse un giovane “chimico dei fantasmi” a consultare un’opera tanto sorpassata. Un giorno, anzi, Segré trovandosi a Londra dal professore Panetti, vecchio allievo di Mayer, fuggito da Vienna dopo l’Anschluss, parlò di me e del mio vecchio libro. Con somma sorpresa del “Basilisco” il celebre chimico osservò: «Da tempo apprezzavo il dottor D’Agostino. Ora, da quanto lei mi racconta, la mia considerazione cresce maggiormente». Come rimanesse il “Basilisco” è facile immaginare! Così, Rasetti ed io cominciammo a lavorare. Nessuno di noi due aveva mai estratto del polonio. Mancavamo perciò di una sicura esperienza. Riuscimmo lo stesso nel nostro intento con somma soddisfazione di Fermi. Ma il più contento di tutti fu Tabacchi, la “Divina Provvidenza”, che poté riavere il suo prezioso radio senza nessuna perdita.


L’ACCOGLIENZA DI MADAME CURIE
Con questi “crismi” partii per Parigi, nel gennaio del ‘34. Immediatamente mi presentai a Madame Curie. Venni accolto con estrema cortesia, però non mi fu difficile capire da mille piccolissimi indizi che la mia venuta aveva destato qualche perplessità. Allora non seppi spiegarmi il perché. Ignoravo l’importantissimo lavoro di ricerca che si stava conducendo nell’Institute du Radium attorno alla radioattività artificiale. Pensai, comunque, che uno straniero, sia pure presentato da Fermi, non avrebbe potuto essere accolto senza qualche riserva. Madame Curie mi domandò se tra i suoi chimici conoscessi qualcuno. Feci allora il nome di Haissinsky, uno studioso di origine russa che si era laureato con me a Roma e che sapevo appartenente all’Istituto. Madame Curie fu lieta di affidarmi a lui.


FERMI AGGREDISCE L’ATOMO
Con Haïssinsky incominicai ben presto un lavoro sull’elettrochimica del polonio. Proprio in quei giorni Federico e Irene Jollot-Curie scoprirono la radioattività artificiale aprendo per la fisica e la chimica nuovi orizzonti. La scoperta dei coniugi Jollot-Curie ebbe un’eco vastissima. Fermi fu tra i primi a comprendere la sua enorme importanza. Egli decise allora di aggredire l’atomo con sorgenti di neutroni. Chiese al professore Trabacchi se era in grado di preparargli simili sorgenti. E la “Divina Provvidenza” disse subito di sì. Io, a Parigi, ignaro di quanto succedeva a Roma, seguitavo a studiare il polonio. Le vacanze pasquali interruppero il mio lavoro. Madame Curie aveva chiuso il suo Istituto. Haïssinsky era partito per le ferie. A mia volta decisi di andarmene. Ma dove? A Madrid per assistere al Congresso internazionale di chimica o a Roma per rivedere la mamma? Gettai una moneta in aria, mentre pensavo tra me: “se sarà ‘testa’ andrò a Madrid, se ‘croce’ a Roma”. Mi chinai sul selciato: era “croce”. Così partii per Roma e feci Pasqua con la mia cara, indimenticabile mamma. Il giorno dopo (la classica pasquetta che porta tutti i romani verso i castelli o lungo l’Appia Antica) pensai di affacciarmi all’Istituto di Fisica. “Non ci sarà nessuno”, pensai. Invece mi sbagliavo: c’erano tutti, Fermi, Amaldi, Segré. (M’accorgo ora che non ho mai nominato Pontecorvo. Ma Bruno fece parte dell’equipe un anno dopo e lo chiamammo “cucciolo”).


URLA DI GIOIA ALL’ISTITUTO DI FISICA
Mancava soltanto Rasetti. il “Cardinale” era andato a finire nientepopodimeno al Marocco, a caccia di farfalle e di qualcosa che gli indicasse chiaramente lo scopo dell’esistenza. Appena Fermi, Amaldi, Segré mi videro urlarono di gioia. Una simile accoglienza era per me inspiegabile. Infatti, io conoscevo tutti molto poco. Per me, anzi, non era stato coniato nessun soprannome, quantunque il trovarlo sarebbe stato estremamente facile. Io porto un naso che non sembra proprio bucato col succhiello com’era quello della Nencia da Barberino, immortalato da Lorenzo dei Medici; il mio è un naso lungo e grosso a cui si potrebbe rivolgere la stessa domanda che Cirano dirigeva al suo popone: “Scusi, il monumento si può visitare?”. Una mia così abbondante caratteristica parve passare inosservata tra i fisici. In verità ciò fu dovuto, come già ho detto, al fatto che io rimasi sempre piuttosto estraneo al gruppo. (Rasetti e Fermi erano stati compagni di scuola e colleghi d’università; Amaldi era stato alunno di Fermi, Segré era stato “attratto” da Amaldi: la moglie di Fermi, Laura Capon, era molto amica di Ginestra Amaldi, la moglie di Edoardo). Inoltre io avevo un altro motivo per non far parte della “banda”: non sapevo giocare al tennis: un “peccato”, questo, gravissimo agli occhi del “Papa” e del suo “Cardinale Vicario”. Le urla di Fermi, di Amaldi, di Segré mi fecero capire che giungevo proprio opportunamente. Che cosa era successo? Fermi, venuto a conoscenza della scoperta dei coniugi Joliot-Curie (come ben ricorda Laura Fermi nel suo libro “Atomi in Famiglia”) aveva deciso di tentare l’uso dei neutroni per produrre la radioattività artificiale.


MANCAVA UNO STRUMENTO
A questo punto dovrei fare un lungo discorso, estremamente arido per chi è digiuno di fisica e di chimica. Dirò solo, invece, che i neutroni sono corpuscoli sprovvisti di carica elettrica. Per questo motivo non sono respinti dalla carica elettrica dei nuclei. Hanno perciò una probabilità maggiore di incontrare un nucleo e di urtarlo con forza. Contro questi vantaggi indiscutibili i neutroni presentano un grosso inconveniente: a differenza delle particelle “alfa” (utilizzate da Federico Joliot e Irene Curie come “proiettili”) essi non sono emessi spontaneamente da sostanze radioattive; per ottenerli bisogna bombardare elementi leggeri come, per esempio, il berillio, con particelle “alfa” emesse da sostanze radioattive naturali. In questo modo si ottiene in media un solo neutrone per ogni centomila particelle “alfa” emesse. Questo bassissimo rendimento faceva dubitare dell’opportunità di usare neutroni. Fermi, invece, decise di provare. Da fisico teorico si trasformò in fisico sperimentale. Ottenuta dalla “Divina Provvidenza” una sorgente di neutroni, era necessario procurare un apparecchio che servisse a rilevare i prodotti della disintegrazione. Un simile strumento non è altro che un contatore di Geiger-Mueller, oggi uno degli oggetti più comuni in un laboratorio moderno. Ma nel ‘34 dove trovare un apparecchio del genere? Fermi, che non aveva mai preso in mano una lima, che non aveva mai lavorato al tornio, si trasformò in meccanico. E, aiutato da Amaldi, fabbricò i contatori. Poi cominciò gli esperimenti bombardando l’idrogeno, il litio, il berillio, il boro, il carbonio, l’azoto: inutilmente. Nessuno di questi elementi si attivava. Il successo giunse più tardi, quando Fermi decise di irradiare il fluoro coi neutroni. Immediatamente il fluoro divenne radioattivo.